La produzione ceramica nell’area di Civita Castellana ha lontanissime origini.
La presenza del fiume Treja e di diversi affluenti del Tevere, oltre alla vicinanza di cave di caolino e di argille refrattarie, permisero agli abitanti dell’antica Falerii Veteres, capitale dei falisci, di acquisire via via una notevole perizia in questo campo, da una realizzazione grossolana si passa infatti a manufatti più raffinati, che imitano l’arte orientale.
Il VI e il V secolo a.C. vedono la crisi del settore a causa della concorrenza dell’ineguagliabile ceramica attica: tuttavia, ancora una volta, l’adesione al modello stilistico superiore, con rare personalizzazioni, permette alla produzione locale di sopravvivere. Con la distruzione da parte romana di Falerii Veteres, che pose fine all’autonomia dei falisci, la produzione di vasellame nell’area non s’interrompe.
Gli statuti comunali di Civita Castellana confermano che anche nel Medioevo la produzione della ceramica ricopre un ruolo importante nell’economia del territorio e che quella dei vasellari è una corporazione che gode di grande considerazione.
Questo filo ininterrotto per secoli trova uno sviluppo industriale nella seconda metà del XVIII secolo, quando l’incisore veneto Giovanni Trevisan, detto Volpato, ottenuta una concessione da papa Pio VI per scavare argilla nei dintorni del Soratte, da un forte impulso alla fabbricazione di ceramiche d’arte, intercettando il gusto allora in voga della riproduzione di modelli della classicità.
La manifattura Volpato fa da apripista a tutta una serie di fabbriche che nel corso del XIX secolo s’insediano nel territorio (tra le tante ricordiamo la Marcantoni, 1881).
Agli inizi del XX secolo il civitonico Antonio Coramusi, utilizzando materie prime locali cominciò a produrre sanitari, segnando di fatto la nascita della specializzazione del comprensorio di Civita Castellana; molte imprese si evolvono da artigiane a industriali, tanto da ricorrere a materie prime di importazione che garantivano una migliore qualità finale del prodotto. Questa proliferazione di manifatture (Sbordoni nel 1911, Percossi negli anni ’20, che si dedica anche alla produzione di piastrelle) e il buon riscontro sul mercato, soprattutto interno, hanno una decisa battuta d’arresto negli anni del fascismo quando la politica economica dell’autarchia impedisce l’approvvigionamento di materie prime dall’estero, causando così uno scadimento dei manufatti.
L’Italia dei primi decenni del secondo dopoguerra è un paese bisognoso di ricostruire il proprio tessuto industriale e l’area di Civita Castellana naturalmente non fa eccezione. Negli anni ’50 molti operai furono licenziati perchè le aziende in cui lavoravano non riuscirono a far fronte a una crisi sia finanziaria che produttiva.
Ecco allora che, spinti dal bisogno, molti ceramisti decisero di rilevare dai proprietari le fabbriche: si trattava di non disperdere un capitale umano e di conoscenze tecniche di alto livello, di continuare a tenere viva la vocazione “naturale” di tutto un territorio.
La gestione aziendale non è più quella tradizionale, perché i proprietari sono i lavoratori stessi: questo nuovo assetto aveva il vantaggio di aumentare la capacità produttiva, in quanto i ceramisti erano toccati ancora più direttamente di prima dal successo o dall’insuccesso del loro lavoro. Il cottimo diventa un modello contrattuale molto praticato.
Negli anni ’60 l’espansione edilizia in Italia fu tumultuosa, per cui la richiesta di beni di consumo diventò alta e pressante.
Questa domanda venne soddisfatta grazie a fondamentali innovazioni nel ciclo produttivo: il forno a fornace toscano alimentato a legna venne soppiantato da quello a tunnel, capace di garantire una cottura più uniforme, e venne introdotto il colaggio. Simili innovazioni richiesero necessariamente altre figure professionali, che andarono a incrementare gli organici, o l’aggiornamento di chi era legato a una tecnica tradizionale e che proprio per questo era capace più di altri di fare proprie le nuove tecniche. In questi anni si delineano in maniera più precisa i confini di quello che oggi è il distretto della ceramica di Civita Castellana.
Il decennio ’70 vide ancora una domanda forte, che portò a una certa standardizzazione del prodotto verso il basso. Molti operai non specializzati sono attratti da un settore in continua crescita che garantisce lavoro e alti salari, ma le conseguenze di questa corsa sregolata non tardarono a farsi sentire.
Nel decennio successivo, infatti, la crisi del mercato europeo rappresentò un colpo durissimo per molte aziende, incapaci di essere competitive: resistettero quelle che, continuando a innovare, riuscirono a conquistare fette del mercato medio-orientale.
Un profondo cambiamento si rese quindi ancora una volta necessario per far sì che un simile patrimonio non venisse cancellato e furono di nuovo le innovazioni tecnologiche, come nuovi macchinari per il colaggio e robot per la smaltatura dei pezzi, a contribuire alla sopravvivenza del polo produttivo.
Ormai però a Civita gli operatori del settore sono consapevoli che tanti paesi emergenti sono diventati temibili “competitor”, per cui si cerca di dare una dimensione più marcatamente industriale alle aziende, soprattutto con l’immissione di nuovi capitali da parte di privati. Nel 1982 nacque il Centro Ceramica Civita Castellana che unì le micro, piccole e medie imprese che operavano nel settore proponendosi di attuare una continua ricerca di risorse e perseguendo l’innovazione tecnologica, aspetto imprescindibile per sostenere e affrontare con successo le sfide che un mondo e un’economia globalizzati pongono.
Quello di Civita Castellana è un distretto che sa valorizzare al massimo il saper fare artigianale, coniugandolo alle esigenze di una produzione di qualità su vasta scala; in un territorio che possiede tutte le risorse per affrontare con ottimismo le molte sfide che il futuro non mancherà di proporre nel settore della produzione ceramica.